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Eugenio Bertin
Eugenio Bertin è un signore della
tavolozza che viene da lontano. Dall’esperienza dei maestri francesi
dell’800, dalla necessità di trasformare il vero in luce: guardarla, senza
mai cadere nel contrappunto dell’ombra. Egli non ama i giochi degli
opposti, privilegia, al contrario, la tonalità che sia espressione di
candore e di calore e che permanga sempre sulla stessa intensità
cromatica. Eugenio Bertin attinge alla natura per non elevarla nella sua
fotografica realtà, ma per interpretarla in chiave delicatamente
soggettiva ed emotiva. Canta le stagioni, il mutare dei suoi miracoli
cromatici, scandisce il tempo tramite la magia della ricchezza di una
tavolozza capace. Ogni lavoro è lo specchio di una istintualità di
un’anima contemplativa. Privilegia la tecnica mista su tela, come nel caso
di “Al crepuscolo” o “Angolo fiorito”: opere riflesso di una tensione
ammirevole nei confronti del ricamo cromatico e segnico della natura. In
“Ginestre marine”, gioca di contrappunto, scena in cui la solarità è
sempre di casa: i gialli squillano e vincono con questo loro accostamento
all’azzurro del cielo, mentre una linea bleu scuro traccia l’orizzonte, da
cui inizia l’infinito. Pittore di figure, come nel caso di “Modella” o di
scene emozionanti al nostro sguardo come nella riuscita “Venezia: Palazzo
Ducale” dall’atmosfera malinconica, fantasmagorica, dove l’osservatore è
preso per incantamento. Eugenio Bertin è assillato non dal reale, ma da
quel sentimento per le atmosfere paesaggistiche che mutano secondo il
cangiamento non solo delle stagioni ma anche del suo cuore, sereno come un
canto mattutino, a volte malinconico come chi attende un impossibile
evento o la realizzazione di un sogno.
Paolo Levi
Dalla natura alla pittura
Che sensazione prova un insetto quando si scava la sua tana nell’umido
terriccio? Potrebbe essere come un immergersi nell’ambiente naturale: un
tepore, una sorta di protezione dall’esterno, un sentirsi al sicuro, e
fors’anche un godimento sottile. Quella terra scura pian piano diventa
“familiare”, cioè fa parte del nostro essere. Forse ci immergeremo in
qualcosa di simile al liquido amniotico che ci ha avvolto prima della
nascita.
Di fronte agli ultimi quadri di Eugenio Bertin ho provato una sensazione
simile. Essi, in quella serata a Preganziol, mentre le ombre si
allungavano fuori sulla campagna, mi apparivano come un amabile rifugio.
Avvicinavo alternativamente lo sguardo sulla pittura; poi lo allontanavo;
quindi ritornavo magari a pochi centimetri dalla superficie. Pian piano
quegli intrichi di segni, quelle macchie di colore, quella materia che
pareva convulsa e schiumante mi diventano amici. Entravo lentamente nel
“mondo” di Bertin. Ed ecco quel che sembrava caotico diventare, quasi per
miracolo, un segno di ordine . L’ordine della natura: l’ordine di una
struttura che da minerale si mutava in organica. Potrei persino dire: la
pittura diventava la proiezione di me stesso. Mi apparteneva.
Spesso, quando parlo di pittura, evito i termini dell’estetica
tradizionale. Preferisco puntare su un concetto nuovo: quello della
“verità biologica”. Nella caduta dei vecchi valori, che la cultura d’oggi
(e non solo quella delle avanguardie artistiche) ha contribuito ad
affossare, si salva soprattutto l’aderenza dell’opera alle qualità
organiche del suo autore. In tre parole: è sempre più importante
constatare che la linfa vitale dell’uomo, quasi i suoi cromosomi, entri
nell’opera e si saldi in essa. È un modo per controllare che non si
infiltrino proprio quei modelli di consumo e di comportamento che
caratterizzano così massicciamente il nostro sistema, fino a fondersi
indissolubilmente in noi stessi. È una questione di libertà: di vita
autonoma, non condizionata. Il critico (ma potrei dire: lo scienziato)
deve misurare questo grado di libertà, intesa come aderenza alla propria
struttura interna, al proprio Io.
Ecco perché il paragone con l’insetto calza. Il vero artista deve
costruirsi il mondo esterno (nella fattiscpecie la sua pittura) a propria
somiglianza: come appunto una proiezione della sua personalità. E deve
sentirsi, in questo ambiente, a suo agio.
Un quadro diventa il luogo materno dell’esistenza. In fondo i quadri di
Bertin assomigliano a dei bozzi di seta fatti di mille e mille filamenti
dorati di un ordine invisibile. È l’ordine – lo ripeto – della natura. Paolo Rizzi Cenni biografici
Bertin Eugenio è nato a Polverara (PD) il 25 dicembre 1950.
Vive ed opera
a Biancade (TV) in via Morosini 5. Ha frequentato
l’Accademia di Belle Arti di Venezia, Scuola libera di nudo Ettore Tito,
sotto la guida di L. Zarotti e di G.F. Tramontin. Bibliografia
È inserito nei Catalogo Nazionale Bolaffi d’Arte Moderna n° 13, 14, 15.
Bolaffi Arte Guida Regionale n° 84 dicembre 1978, nel Grande Dizionario
“Artisti Italiani Contemporanei” ed. 1979, Dizionaro Int. Degli Artisti
Contemporanei – 1980, edito dall’Accademia Italia – Salsomaggiore Terme Al
Kunsthistorisches Institues (Firenze), catalogo nazionale Artisti Veneti
edito dalla Commed di Milano. Nella collana “Arte Italiana Contemporanea”
casa editrice “La Ginestra” Firenze 1987. Nell’annuario Commed dal n° 15
al 31 e nel catalogo “Arte Moderna” dal 32 al 35 ed. Giorgio Mondadori.
Catalogo d’Arte Contemporanea “Artisti e Opere”, anno 1999, ed. G.
Mondadori. Sue opere si trovano nelle collezioni private e pubbliche delle
maggiori città italiane ed estere: Svizzera, Belgio, Germania, America,
Canada, Lussemburgo, Austria, ecc.
Sue notizie bibliografiche si trovano presso l’archivio storico della
Biennale di Venezia. Testi critici
R. Alessandrini – G. Bagni – A. Ballis – S. Bolzan – L. Bortolatto – L.
Brunazzo – E. Buda – E. Concarotti – E.D. Martino – B. De Donà – L. Di
Cuonzo – P.L. Scarpa – P. Levi – A. Madaro – V. Magno – S. Minto – C. Mora
Taboga – G. Peretti – B. Pittarello – V. Rigoldi – P. Rizzi – G. Segato –
L. Speranzoni – M. Stefani – O. Stefani – S. Wailler Romanin. |
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